Non sono molti i comuni italiani che possono vantare una longevità del proprio strumento di pianificazione vigente paragonabile a quella dell’Aquila, attualmente giunta ai 37 anni. Considerando che non ci sono ancora iniziative in atto, e che per la tradizione tecnico-politica nazionale sarebbero del tutto normali 13 anni per il completamento di un processo di redazione di PRG, ci sono ottime possibilità per il capoluogo abruzzese di raggiungere il record del mezzo secolo con lo stesso dispositivo di governo urbanistico.
In termini di classifiche il comune dell’Aquila appartiene a quella minoranza di capoluoghi di provincia (meno di 10 su quasi 120 di cui la maggior parte in avanzata fase di rinnovo) e a quel 7-8% dei comuni italiani che, secondo i dati del Rapporto dal Territorio dell’INU 2007, è ancora fermo alla pianificazione degli anni compresi tra il 1968-77. Appare piuttosto contraddittorio che una città che ambisce al blasone di Capitale Europea della Cultura non appartenga almeno a quell’80% dei comuni dell’Italia centrale che ha un piano elaborato dopo il 1985, o a quel 60% che lo ha aggiornato dopo il 1996 o a quel 40% che ha pianificato dopo il 2000.
Si deve infatti ricordare come, dopo i PRG degli anni ’70 (definiti dalla letteratura urbanistica di Prima Generazione e finalizzati brutalmente alla crescita fisica delle conurbazioni) le città italiane più attente alla loro qualità sono arrivate a PRG di Terza Generazione elaborati dopo il 2000 (con importanti attenzioni verso le qualità ambientali), passando attraverso strumenti di Seconda Generazione adottati a cavallo degli anni ’80-’90. Il confronto con le date di aggiornamento ultimo di altri comuni affini per dimensioni e problematiche è significativo: Terni 2003, Rieti 2004, Lanciano 2011, Sulmona 2006, Teramo 2006, Chieti 2008, Pescara 2009.

Bernardino Romano Prof.Urbanistica Univ. L’Aquila


Sottoporre a critica il PRG 1975 non ha oggi molto senso, in quanto si è trattato di un piano come se ne facevano all’epoca, allestito su un sommario zoning e il minimo sindacale degli indici urbanistici. A dire la verità le poche indicazioni del piano sono state fino agli anni ’90 anche rispettate, ma erano appunto troppo poche e blande per garantire un risultato apprezzabile e certamente ad un occhio esperto che osservi le periferie ciò appare in pieno. Il pseudoabusivismo dominante ovunque (mescolanza di tipologie edilizie, maglie stradali disorganiche e mai chiuse, indecifrabile struttura degli spazi collettivi, totale carenza di qualità urbanistica nei pattern di quartiere, enigmatico ruolo del verde pubblico) è imputabile a cause distinte e concorrenti: le elementari norme zonali e parametriche utilizzate al tempo unitamente ad una debolezza di “disegno” del piano e a manifeste insufficienze di risolutezza gestionale che hanno accomunato le amministrazioni via via succedutesi negli anni. Del resto la pianificazione degli anni ’70 serviva a raggiungere determinati esiti di crescita, senza sensibilità e maturità per affrontare tematiche che si sono imposte dopo, come gli elevati requisiti ambientali e la sostenibilità in campo edilizio, urbanistico, energetico e trasportistico.

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